Cronaca locale

Quei cento racconti dai sopravvissuti della Shoah italiana Al Dal Verme, il Centro studi di ebraismo presenta un’inedita raccolta di testimonianze

È una villetta sobria ed elegante in via Eupili, poco distante dall'Arco della pace. Ma non è un casa come le altre. È la sede di Cdec, Centro di documentazione ebraica contemporanea, attivo dal 1955 che promuove lo studio della cultura e della realtà ebraica con particolare riferimento all'Italia. In questo luogo della memoria, che raccoglie la storia della persecuzione antiebraica fascista e nazista, e dove gli stessi Spielberg e Benigni si sono rivolti per documentare i loro film, un piccolo gruppo di ricercatori lavora instancabile anche per contrastare ogni forma di antisemitismo e pregiudizio. Incontriamo Liliana Picciotto, studiosa dell'Istituto e autrice di numerose e importanti opere sulle vicende degli ebrei in Italia. In occasione del IX Giorno della memoria, presenterà «Il libro della Shoah italiana» (Einaudi) di Marcello Pezzetti, storico Cdec e direttore del Museo della Shoah di Roma, con il quale, tra l'altro, la ricercatrice ha realizzato il film-documentario «Memoria», per la regia di Ruggero Gabbai. L’appuntamento è per oggi (ore 20.30), sala grande del Teatro dal Verme, via San Giovanni Sul Muro, e vedrà l’introduzione di Ferruccio De Bortoli, direttore del «Sole-24 ore» (ingresso libero fino a esaurimento posti).
Cosa tratta il libro di Pezzetti?
«Sono le testimonianze di oltre cento sopravvissuti che compongono un grande racconto corale dell'ebraismo italiano. Nel 1943 venne deportato in totale circa un quinto degli ebrei residenti: oltre 9000 persone quasi tutte dirette ad Auschwitz. Sono storie di grande impatto emotivo, che intrecciano traumi, sogni, rabbia, smarrimento, sensi di colpa, e persino speranza, dopo il ritorno alla vita».
Si parla molto del Giorno della memoria: non c'è il rischio di cadere nella retorica?
«Per anni non se n’è parlato. Adesso c'è sicuramente molta attenzione, sia in Israele sia in Europa. La cultura occidentale ha bisogno di illuminazioni esteriori, quindi il Giorno della memoria diventa una vetrina, anche per i politici. Non sono sicura che i riflettori siano il modo migliore per ricordare la Shoah».
Avraham Burg, nel suo ultimo libro, parla addirittura di strumentalizzazione della Shoah.
«Personalmente ricordo la Shoah in modo "antico": in questo senso bastava lo Yad Vashem (memoriale ufficiale di Israele delle vittime dell'Olocausto, ndr). Adesso in Israele succede quello che sta succedendo in Europa, si tende a standardizzare le vittime».
Cosa si può fare perché questo non accada?
«Qui al centro abbiamo fatto per anni un lavoro da formichine, mai gridato, con grande empatia nei confronti delle vittime e lontano da ogni spettacolarizzazione. Abbiamo cominciato raccogliendo le testimonianze dei superstiti, le abbiamo scritte a mano, una per una, immedesimandoci nella loro storia, soffrendo con loro. Un lavoro così non si ripaga con nessun concerto o film, per quanto belli siano. Detto questo non sono contraria alla memoria collettiva, ma forse ho nostalgia di un altro modo di portare alla luce gli eventi».
Il suo prossimo progetto?
«È in corso da alcuni anni.

Si chiama Memoria della salvezza, una ricerca tesa a ricostruire la strategia usata dalle famiglie ebraiche per la loro salvezza e nel contempo a conoscere l'atteggiamento della società civile nei confronti dell'emergenza Shoah».

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