Difesa

Dal Califfato alla guerra-ombra. I militari italiani sul fronte bollente dell'Iraq

L'operazione Prima Parthica è una delle numerose missioni italiane nei punti caldi del pianeta. Nel crocevia del Kurdistan iracheno, tra la minaccia dell'Isis e le complessità della guerra-ombra tra Iran e Israele, le forze armate presidiano Erbil e addestrano i Peshmerga. E per le nuove sfide del mondo, l'Esercito sa che deve essere sempre pronto e aggiornato su qualsiasi minaccia

Dal Califfato alla guerra-ombra. I militari italiani sul fronte bollente dell'Iraq

(Erbil, Kurdistan iracheno) Immersi tra terre aride e fertili, città e villaggi, montagne e fiume Tigri, i militari italiani di Erbil osservano il mondo da un'angolazione unica. Da camp Singara, base italiana nella capitale del Kurdistan iracheno, i trecento col Tricolore sono al centro di un mondo in piena fibrillazione, dove gli ultimi echi della guerra Usa a Saddam Hussein si uniscono alle ultime ridotte dello Stato islamico e alla grande crisi tra Iran e Israele. Al comando del colonnello Francesco Antonio Serafini, i soldati italiani presidiano l'area, addestrano i Peshmerga curdi, garantiscono che l'Iraq non subisca i colpi più duri di una crisi che ha investito da anni il Medio Oriente. Una missione complessa, in un'area in cui si concentrano sfide vecchie e nuove. E anche i tipi di guerra che cambiano radicalmente.

La guerra all'Isis è stata allo stesso tempo una guerra convenzionale e una guerra asimmetrica. Una lotta contro una forza jihadista inarrestabile e che si fece Stato, ma anche una sfida antiterrorismo e di intelligence. Oggi, il Califfato è apparentemente sconfitto. I curdi si sentono sicuri del fatto che le ultime sacche, in quella terra "non concordata" tra armate del Kurdistan e irachene, siano in realtà un problema gestibile. Anche se l'ideologia non è morta, spiegano dal ministero dell'Interno e della Difesa. E sorvolando in elicottero il territorio che da Erbil arriva fino alla diga di Mosul, il tempo sembra scorrere tranquillamente. Il verde dei campi bagnati dalle recenti piogge si scontra con la vista di aree desertiche. Il monastero di San Matteo ha ripreso ad accogliere pellegrini quando fino a pochi anni fa le bandiere nere dei Daesh ne minacciavano la sopravvivenza. Dall'alto tutto appare normale. Come normale è il lavoro della diga, il cui bacino di acque cristalline regola la vita dell'antica Mezzaluna fertile mentre un tempo l'Isis aveva fatto il possibile per conquistarla e trasformarla in un orrendo rubinetto sul destino di tutto il Paese. Ma il governo curdo è perfettamente consapevole che la situazione può mutare da un momento all'altro.

L'esperienza dell'Isis è un precedente impossibile da dimenticare. In pochi mesi, e proprio a non molti chilometri da Erbil, Abu Bakr al Bahdadi ha proclamato il Califfato, ha creato un esercito del terrore e ha devastato una regione mettendo in fuga cristiani e yazidi, uccidendo e saccheggiando, schiavizzando e infrangendo secoli di convivenza. Una fiammata nera che è stata frenata dai Peshmerga e dalla Coalizione internazionale. E il governo regionale curdo sa che da quella lezione non si torna indietro. Le cicatrici, come ci spiega il ministro della Difesa, sono ancora difficili da rimarginare. Ben visibili negli occhi dei bambini che hanno perso tutto in una guerra che non ha lasciato scampo ai loro padri e alle loro madri. Il ministro dell'Interno ci racconta che i detenuti "hanno bisogno di una nuova prospettiva di vita", che "devono uscire dalle prigioni irachene sapendo di potere essere di nuovo cittadini". Ma la deradicalizzazione, si sa, è un compito difficile, arduo, spesso impossibile. E nel frattempo, associazioni e ong si occupano dei figli di quel momento buio della storia umana in cui sunniti, yazidi, sciiti, cristiani, curdi e iracheni si sono trovati l'uno di fronte all'altro. "Difendere i cristiani è importantissimo" ci dice il ministro dell'Interno Rebar Ahmed. E non è un caso che siano stati proprio i Peshmerga (musulmani sunniti) a issare di nuovo la croce della chiesa di Bashiqa, devastata dall'Isis.

I militari italiani di Prima Parthica sono lì soprattutto per questo. Insegnano ogni giorno i militari curdi a diventare un esercito in tutto e per tutto: perfettamente integrato con le forze armate di Baghdad. Pronto a combattere ogni sfida. Addestrano i tiratori scelti con un lavoro certosino, settimane di lezioni e test, con militari che devono apprendere presto e bene le tecniche per uccidere i nemici. Gli uomini dell'Esercito accompagnano passo dopo passo la nascita di una forza armata con una proposta storia e un proprio retaggio. "Pronti a combattere fino alla morte", come dice il loro stesso nome. Tra cecchini, gruppi anti IED, addestratori, combattenti di montagna, medici, forze per il controllo della folla, l'esercito sta aiutando il Kurdistan a evitare che lo scenario più nefasto si ripeta di nuovo. Che se l'Isis alza la testa, qualcuno è subito pronto a tagliarla.

Ma la sfida degli italiani di Erbil è anche la prova di come oggi una forza armata debba essere pronta. Predisposta a confrontarsi con ogni scenario, con una modernità galoppante e con sfide allo stesso tempo antiche e futuristiche. Non è un caso che il generale Carmine Masiello, capo di Stato maggiore dell'Esercito, abbia ribadito che "la sicurezza si estrinseca nell'avere un esercito attrezzato per un ventaglio di scenari, dai conflitti convenzionali alle nuove frontiere di confronto, quali lo spazio, il cyber, la disinformazione". Perché anche una missione come quella dell'ultimo avamposto italiano nel nord dell'Iraq è la dimostrazione di come oggi un esercito debba fare tutto. Addestrare, controllare, confrontarsi con nuove tecnologie e nuovi metodi di guerra. Per combattere il terrorismo e i nuovi nemici servono metodi per contrastarli ma anche per anticiparne le mosse. Un continuo aggiornamento che non vale solo per il jihad ma anche per le altre sfide con cui il mondo deve fare i conti. "L'Esercito deve essere rivisto sotto diversi profili", ha sottolineato Masiello al Corriere della Sera, "sono cambiati gli scenari, le minacce e, quindi, le esigenze, anche degli altri Paesi Nato. Vanno rivisti soprattutto i principali sistemi d'arma, potenziati gli strumenti, adeguate le strutture e le procedure d'impiego. Bisogna sbrigarsi, perché non sappiamo cosa accadrà".

E il Medio Oriente è un esempio concreto di cosa significa questa accelerazione nelle nuove sfide. A poca distanza dalla base italiana di Erbil, l'Iran ha già dimostrato di essere una potenza capace di un ampio ventaglio di opzioni per colpire i propri nemici, dai droni ai missili a lunga gittata, dalle milizie locali ai Pasdaran, dai virus informatici all'infiltrazione politica. Minacce dall'alto e minacce dal basso, terrorismo, intelligence, metodi convenzionali e non convenzionali, disinformazione e cyber, carri armati e droni, fucili e alta tecnologia si uniscono in un groviglio inestricabile. La guerra asimmetrica è già realtà e il Medio Oriente è un campo di battaglia costante e in continua accelerazione. Un test che l'Esercito e le forze armate italiane stanno superando brillantemente, e che serve anche a Romna come fondamentale carta da giocare nel campo della diplomazia. Gli italiani sono richiesti e apprezzati su qualsiasi fronte e in ogni loro forza, dai Carabinieri, all'Aeronautica, dall'Esercito alla Marina. Ma questa richiesta e questo continuo stress test al fronte servono anche a capire i limiti e le prossime necessità di ogni componente militare.

Le sfide non aspettano.

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