Storia d'assalto

L'attentato di Fiumicino: una strage dimenticata

Nell'anniversario di strage "dimenticata", il ricordo di quel terribile giorno che ha segnato la storia del nostro Paese; configurando nuove posizioni nella politica estera, e un approccio differente nei confronti del terrorismo

L'attentato di Fiumicino: una strage dimenticata

17 dicembre 1973. Aeroporto di Fiumicino. Un commando di terroristi irrompe sulle piste e assalta un aereo della compagnia statunitense Pan American. Il volo, il numero 110, è diretto a Teheran, in Iran, e che secondo i piani dovrà fare scalo a Beirut.

I terroristi, si è sempre supposto fossero cinque, sono tutti affiliati al gruppo estremista palestinese noto come Settembre Nero; sono arrivati da Madrid, e hanno estratto le armi, mitragliatori automatici e pistole semiautomatiche dalle valige, attraversando i terminal con sei poliziotti in ostaggio e prendendo d'assalto la pista dove un aereo della Pan Am, un Boeing 707 che può trasportare quasi 200 passeggeri, si prepara alla fase di rullaggio. A bordo, il comandante ha notato dalla cabina del trambusto nel terminal, e impartisce ai passeggeri l'ordine di abbandonare i propri posti, nonostante il volo sia prossimo al decollo - previsto per le 12.45 ma in ritardo di 25 minuti. Per la loro sicurezza è meglio che si sdraino a terra: forse teme per delle pallottole vaganti. E non immagina che l'obiettivo di quel commando sia proprio il 707, che verrà preso d'assalto pochi istanti dopo. Il primo gruppo di terroristi irrompe sull'aereo attraverso la scala mobile, che è ancora agganciata alla carlinga. L'attacco è fulmineo. Vengono lanciate dentro l'aereo tra le due e le tre bombe a mano al "fosforo bianco": un'arma incendiaria devastante per il corpo umano, poiché reagente all'ossigeno e ai composti contenenti acqua, come il corpo dell'uomo, che subisce la completa distruzione di ogni tessuto organico che vi entra in contatto. È inoltre estremamente tossica l'anidride fosforica prodotta nella deflagrazione.

Le fiamme scaturite dall'esplosione raggiungono i serbatoi generando un incendio a bordo, mentre un'altra granata dirompente apre uno squarcio sul tetto della fusoliera. L'equipaggio ordina l'evacquazione del velivolo, ma trentadue passeggeri, rimasti gravemente feriti nelle diverse detonazioni e svenuti per lo shock e il fumo, moriranno. Molti di loro soffocati. Ma non è ancora finita. Perché il secondo gruppo di terroristi, nel frattempo, ha attaccato un secondo aereo in fase di rullaggio davanti al gate, il numero 14.

Si tratta nel Boieng 737 operato dalla compagnia di bandiera di quella che allora è la Germania Ovest, la Lufthansa - ignorando un volo dell'Air France anch'esso diretto a Beirut. Sotto il volo della compagnia tedesca, che era diretto a Monaco di Baviera, c'è un agente della della Guardia di Finanza appena ventenne. Disarmato e immobilizzato, gli viene intimato di allontanarsi dal velivolo, ma mentre è intento ad eseguire l'ordine degli attentatori, uno di loro gli spara alla schiena. Si chiamava Antonio Zara. Il commando, riunitosi a bordo del volo Lufthansa, decide di dirottarlo e di ordinare al comandante di decollare. Appena 41 minuti dopo l'inizio dell'azione, alle 13.32, il Boeing 737 lascia l'aeroporto di Fiumicino per fare rotta su Atene.

I dirottatori pretendono la liberazione da parte del governo greco di due membri di Settembre Nero; ma la pretesa, accompagnata dalla minaccia di far schiantare l'aereo con tutti i passeggeri sulla città, resta inascoltata. Così i terroristi, che lasciano l'aereo fermo sulla pista per 16 ore, sparano ad uno degli ostaggi, un altro italiano, lo abbandonano a terra insieme ad alcuni feriti, e ordinano al pilota di fare rotta su Beirut: dove le autorità hanno schierato mezzi militari sulla pista per evitare l'atterraggio. Lo stesso accadrà a Cipro; costringendo i dirottatori su Damasco. Il volo corto di carburante, fa rifornimento quando sono ormai passate 24 ore dall'inizio del calvario per gli ostaggi. L'unico Stato che finisce per accordare l'atterraggio, in un primo momento, è il Kuwait. La torre di controllo di Kuwait City negherà solo all'ultimo il proprio consenso, ma il pilota atterrerà lo stesso su una pista secondaria. E lì, finalmente, gli ostaggi, dopo una lunga trattativa, vengono rilasciati. Il prezzo da pagare, per il governo del Kuwait, ma più in generale per la diplomazia internazionale, sarà la libertà dei terroristi, che scendono dall'aereo con le armi in pugno ed esibiscono ai loro spettatori la "v" di vittoria con le dita della mano. Estradati in Egitto, saranno consegnati all'Organizzazione per la Liberazione della Palestina senza essere processati. E senza lasciare alcuna traccia. Il bilancio finale dell'attentato è di 34 vittime, 6 di queste erano di nazionalità italiana: cinque civili e un militare che verrà insignito della medaglia al valore, alla memoria.

I retroscena della strage "dimenticata"

Quando nel dicembre del 1973 il commando di Settembre Nero fece irruzione a Fiumicino, il mondo occidentale non è ancora pienamente cosciente della minaccia del terrorismo internazionale; e uno scalo internazionale di grande importanza come era già allora il primo aeroporto di Roma, non era contemplata alcuna contromisura - nel perimetro e nei controlli interni all'aeroporto - né uno schieramento di forze adeguato e formato per rispondere ad una simile minaccia: degli oltre cento agenti di Polizia di Stato, Arma dei Carabinieri e Guardia di Finanza in servizio quel giorno, di fatto, solo 8 erano addestrati e addetti al servizio anti-sabotaggio/terrorismo. Eppure, appena un due mesi prima, un altro commando di terroristi palestinesi, anch'essi collegati a Settembre Nero, formazione già nota per aver compiuto l'attentato alle Olimpiadi di Monaco, aveva progettato un attentato sempre nell'aeroporto romano, immaginando di abbattere dal suolo di Ostia un volo della compagnia israeliana El Al impiegando un lanciarazzi di produzione sovietica Strela-2. L'attentato venne sventato dai servizi segreti italiani allertati dal Mossad. Il giorno dell'attentato di Fiumicino, 17 dicembre 1973, alcuni dei presunti terroristi che avrebbero preso parte al fallito attentato di Ostia, sarebbero stati processati. Interrompendo quel patto occulto (e presunto), che sarebbe stato stretto tra i vertici della Democrazia Cristiana a del Partito Comunista Italiano e i vertici dell'Organizzazione per la liberazione della Palestina; poi noto come "Lodo Moro", dopo la scoperta e la declassificazione del dossier Mitrokhin: una serie di informazioni prelevate dall'archivio dell'omonima spia del Kgb che operava in Italia in quegli anni.

Il patto segreto ratificato oralmente da alcuni vertici dello Stato Italiano, incastonato tra le politiche atlantiste, l'influenza del Cremlino sul partito comunista più potente d'Europa, e una singolare politica "filo-araba" che teneva a privilegiare interessi particolaristici - in Medio Oriente come in Libia, anche in contrasto con l'assetto della Nato - consisteva in quella che venne riassunta come una "libera circolazione di armi e terroristi" sul suolo italiano in cambio di una garanzia, informale, di non essere oggetto di attentati.

Secondo alcune versioni, l'imbarazzo del governo, che attraverso gli agenti del Sid e una parte di quelli che poi verranno soprannominati "servizi deviati" tramava accordi segreti evidentemente fallibili per le allora battezzate "ragion di Stato", unito alla succitata "politica filo-araba" condotta da alcuni vertici del governo, allora presieduto dal presidente Rumor, avrebbe portato a tralasciare motodicamente una strage dove l'Italia si era resa più "teatro" che "vittima". Un triste teatro dove il terrorismo palestinese si sarebbe "esibito" nuovamente nel 1985, uccidendo ancora quattordici persone, e ferendone oltre settanta, durante una sparatoria che si consumò nell'area dedicata al check-in.

Anche allora, secondo testimonianze ottenute a posteriori, il Sismi, servizio segreto italiano erede del Sid, era stato allertato sull'eventualità che organizzazioni estremiste palestinesi colpissero sul territorio italiano.

Commenti